Architettura e funzione della piazza, Il teatro della scena quotidiana

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ilsilenzio
view post Posted on 11/10/2005, 11:04




Laura Bertolaccini

Architettura e funzione della piazza
Il teatro della scena quotidiana
in: Costruire in Laterizio, n. 44, Roma, marzo-aprile 1995, pp. 140-143



Quante volte, camminando per una città sconosciuta ci siamo improvvisamente fermati, attratti dal fascino misterioso di una piazza e dalle sue architetture e poi, ripreso il cammino, quella città fino allora ignota è divenuta straordinariamente familiare, come se i suoi tracciati fossero riemersi dal profondo in cui erano sedimentati. E quante volte ancora il ricordo di un viaggio si è fissato su quei luoghi in cui si è sostato a contemplare la vita che vi si svolgeva. La memoria di quegli spazi dove, stranieri, ci si è sentiti incredibilmente accolti, racchiude in sé il mistero dell’arte antica di edificare le città. Un’arte che sembra essere stata dimenticata dalla recente storia urbana ma che dobbiamo nuovamente imparare se vogliamo operare nella città, sia essa moderna o consolidata.

Cercheremo allora di recuperare, leggendo le trasformazioni dei tracciati e l’evoluzione sociale della città, quel mistero vitale che ha evitato la decadenza ed ha permesso lo sviluppo della scienza urbana e quindi dell’architettura.

Proveremo a parlare della piazza ricercando la sua idea primigenia, le forme archetipe che si sono tramandate valicando confini geografici e culturali, nel tentativo di individuare tipi e modelli che possano servirci da guida nella nostra produzione contemporanea, convinti che la conoscenza di quegli organismi, di quegli avvenimenti, di quei comportamenti possa essere tradotta, in termini odierni, in nuove e suggestive elaborazioni progettuali.

"In ogni paese – scrive Quatremère de Quincy nel suo Dictionnaire Historique d’Architecure, pubblicato a Parigi nel 1832 – l’arte del fabbricare regolarmente è nata da un germe preesistente. è necessario in tutto un antecedente; nulla in nessun genere, viene dal nulla; e ciò non può non applicarsi a tutte le invenzioni degli uomini. Così noi vediamo che tutte, a dispetto dei cambiamenti posteriori, hanno conservato sempre chiaro, sempre manifesto al sentimento e alla ragione il loro principio elementare. è come una specie di nucleo intorno al quale sonosi agglomerati e coordinati in seguito gli sviluppamenti e le variazioni di forme, di cui era suscettibile l’oggetto. Perciò a noi sono pervenute mille cose in ogni genere: e una delle principali occupazioni della scienza e della filosofia, per afferrarne le ragioni, è di ricercare l’origine, la causa primitiva. Ecco ciò che deve chiamarsi tipo in architettura, come in ogni altro ramo delle invenzioni e delle istituzioni umane.

Vi ha, per risalire al principio originario, e al tipo della formazione dell’architettura in diversi paesi, più di una strada che ad esso conduce. Le principali si trovano nella natura di ogni regione, nelle nozioni storiche e ne’ monumenti stessi dell’arte già sviluppata. Così quando si rimonta alle origini delle società che hanno un principio di incivilimento, si vede l’arte di edificare nascere da cause e con mezzi quasi uniformi da per tutto".

La piazza, costruita attraverso lente stratificazioni o realizzata ex novo nelle città di fondazione, è lo spazio privilegiato, il luogo dell’incontro e dello scambio, dove cultura e storia, simboli e tradizioni, rivivono quotidianamente in una forma armonica la cui essenza è possibile rintracciare nell’idea aristotelica di sicurezza e di felicità che una città deve saper offrire ai suoi abitanti. Quest’immagine è andata via via perdendo di significato nella città attuale: spazi senza qualità si susseguono in una sequenza indifferente a qualsiasi contesto, omologano le città le une alle altre, confondono i ricordi. Un viaggiatore di altri tempi, con il suo taccuino di appunti e schizzi, difficilmente troverebbe dei riferimenti di fronte ai vuoti dei tessuti periferici moderni, più banali ed irrisolti momenti di interruzione del percorso che piazze, più episodi amorfi, occasionalmente posti a bloccare lo sviluppo edilizio, che luoghi di incontro.

Le indicazioni dei piani regolatori, i modelli matematici, la meticolosa adesione ai dettami della normativa urbanistica, non sono in grado di interpretare l’armonia dei luoghi, né di fornire in termini qualitativi, una risposta concreta alla domanda reale di spazi vivibili, funzionali e belli.

Con l’entusiasmo di chi crede che sia ancora possibile creare opere utili e al contempo belle e perenni, cercheremo di rintracciare quegli aspetti che, allontanandosi da questioni puramente tecniche, pongono l’accento su quei principi generali della composizione che hanno prodotto i mirabili esempi del passato. Ricorderemo, come doverosa premessa, che l’idea principale di piazza è nel suo essere spazio chiuso, definito, recintato, circoscritto. Queste qualità presuppongono strette e vincolanti relazioni dimensionali perché non vada perso il senso di unità, di armonia, di identità, di appartenenza.

Le piazze della tradizione appaiono così: protette ed appartate, circondate da edifici importanti, perimetrate da portici che permettono un riparo ombroso d’estate ed una protezione al vento d’inverno. Sono palcoscenici sui quali avviene la rappresentazione della collettività e del potere cittadino. Sono teatri aperti, senza interruzioni, concepiti per accogliere la folla delle feste, dei mercati, delle celebrazioni religiose.

Le nuove piazze invece, nate dall’intersezione di figure regolari, linee o superfici, dalla riga o tutt’al più dal compasso, dal senso astratto dell’ordine e della gerarchia sociale, appaiono sin troppo vuote, incapaci di favorire gli eventi, mute di fronte al ricordo e alla memoria, troppo buie, troppo assolate, troppo spesso deserte.

Sin dall’antichità, dall’agorà greca, dal foro romano e, ancor prima, dalle corti dei palazzi cretesi o micenei, fino agli organismi medievali e quindi rinascimentali e barocchi, la piazza ha mantenuto, pur mutando in modelli e sistemi differenti, la sua caratteristica principale di luogo di forti concentrazioni culturali e sociali.

Non sembri una forzatura voler far discendere la figura spaziale della piazza dall’antico foro romano. è dalla stessa lettura etimologica che troviamo la più stretta adesione con l’idea di piazza: forum trae le sue radici dal vocabolo foris che – come scrive Carlo Battisti – "indicava semplicemente il luogo esterno, usato nel latino arcaico delle Dodici Tavole per indicare lo spiazzo quadrato avanti il sepolcro, poi per designare lo spazio libero avanti la casa e successivamente anche una piazza quadrata all’interno di un abitato adoperata per assemblee o per mercati".

L’archetipo della piazza è rintracciabile dunque nello spazio antistante il luogo di sepoltura. Il senso della morte, i riti e i culti celebrativi daranno a questo posto una sacralità particolare, lo renderanno simbolo, luogo tra i luoghi.

Il foro romano è il modello cui guarda Vitruvio nel descrivere come edificare i nuovi spazi aperti: "… si definisca la larghezza in modo tale che si utilizzino due parti delle tre della lunghezza. Così la forma del foro sarà oblunga e la sua disposizione sarà utile allo scopo degli spettacoli … Le basiliche bisogna porle attigue e congiunte al foro nelle parti più calde, onde permettere ai negoziatori di accedervi di inverno senza il timore del cattivo tempo … L’Erario, o Tesoro, il carcere e la Curia debbon esser attigui al foro, ma in modo che la loro grandezza e lor misure siano al foro proporzionali. E specialmente la Curia deve esser fatta in modo degno dell’importanza della città e dei suoi abitanti".

Il senso collettivo dello spazio pubblico si tramanderà poi nei secoli come una sorta di patrimonio genetico, sino alla edificazione delle piazze medievali.

Dal rapporto percettivo- prospettico tra l’edificio più rappresentativo (il monumento) e il vuoto antistante, nascono le tre principali forme organizzative dello spazio urbano: la piazza sagrato, sorta di traslazione verso l’esterno delle attività religiose, luogo in cui, attraverso una attenta progettazione scenografica, si esalta la verticalità della facciata, la spinta verso l’alto, l’elevazione al cielo; la piazza civica, luogo delle pratiche politico-amministrative, caratterizzata dal palazzo comunale di cui è un moderno vestibolo, dalla torre, dal monumento; la piazza mercato, spesso collocata ai margini del tessuto cittadino, quasi a ridosso delle mura, dove trova posto, in posizione eccentrica rispetto al percorso principale, la fontana. Da queste premesse e dalle infinite combinazioni che vengono a generarsi a seconda delle diverse situazioni geografiche, orografiche, morfologiche, nascono i sistemi di piazze, tipici dei centri italiani, in cui l’intersecarsi di ruoli e funzioni dà vita a sempre nuovi organismi spaziali.

La piazza è dunque, prima di ogni altra cosa, scena. Scena della vita collettiva ma, soprattutto, scena come costruzione ideologica della strategia del potere. Per i Principi e i Signori rinascimentali la piazza diviene lo strumento attraverso il quale mostrarsi e mostrare l’avvenuta riforma politica, sociale, urbana. Le città ideali traducono questa metafora del potere attraverso le rappresentazioni di spazi sapientemente ritmati che trovano nelle proporzioni, nella geometria, nei principi della prospettiva, il loro ordine. Il programma formale del Rinascimento si manifesta allora attraverso la realizzazione di piccoli gioielli di perfezione matematica. Le tavole prospettiche conservate ad Urbino, Baltimora e Berlino testimoniano che, pur mutata ed evoluta la condizione sociale, il principio di teatralizzazione dello spazio urbano è ancora la regola compositiva.

A differenza dello spazio medievale, quello rinascimentale, e ancor più quello barocco, diviene luogo simbolico, figura retorica, mezzo per la celebrazione di miti, di riti e di potere. Sembra quasi, ad una sommaria osservazione, si sia progressivamente persa la componente spontanea legata all’essere dell’uomo sulla Terra. Ma tra i palazzi delle città ideali, caratterizzati da un ordine geometrico di stampo classico, appaiono alcuni elementi tipici del panorama urbano medievale, a riprova di un profondo, fondato, senso di continuità con il passato, con quelle forme della tradizione ancora così vitali. Non deve meravigliare questa tolleranza verso l’epoca trascorsa: è altresì la conferma di una completa adesione con la realtà comunque costituita di stratificazioni, di permanenze, di tracce da cui trarre le linee compositive per le successive elaborazioni.

Gli scorci sulle piazze rinascimentali trovano una vasta e rinnovata teorizzazione nella trattatistica architettonica e militare.

"Occorre tener presente – scrive Leon Battista Alberti nel suo De Re Aedificatoria – che una città non è destinata solo ad uso di abitazione; deve bensì esser tale che in essa siano riservati spazi piacevolissimi e ambienti sia per le funzioni civiche sia per le ore di svago in piazza, in carrozza, nei giardini, a passeggio." L’essere dell’uomo è al centro dell’interesse dell’Alberti e di conseguenza è la scala umana a fissare i rapporti proporzionali della piazza ideale: "… raccomanderemo un tipo di foro la cui area si componga di due quadrati, e tale che il loggiato e le altre parti costruite all’intorno corrispondano all’area scoperta secondo determinate proporzioni, di guisa che quest’ultima non appaia troppo vasta, se le strutture circostanti sono troppo basse, o troppo stretta, se recinta da un ammasso di costruzioni troppo alte".

Leggi e norme non sono aspetti vincolanti: la loro conoscenza permette il controllo di tutte le parti, ammette la deroga, nell’intento di raggiungere il fine ultimo della bellezza che, letta sempre attraverso le parole dell’Alberti, è "l’armonia tra tutte le membra, nell’unità di cui fan parte, fondata sopra una legge precisa, per modo che non si possa aggiungere o togliere o cambiare nulla se non in peggio".

La piazza rinascimentale, dunque, seppur nata come opera di carattere universale, mantiene stretti rapporti con le piazze dell’antichità, i fori della città del passato che "oggi non s’usano", come scrive Filarete. Ed è proprio Filarete a riprendere, nella sua fantastica descrizione della città di Sforzinda, il tema della piazza come spazio ricco di effetti, di molteplici vedute prospettiche, in grado di favorire gli incontri, di suggerire le relazioni, di assecondare l’imprevisto.

Più di ogni altra la piazza ducale di Vigevano sembra essere la traduzione tridimensionale delle parole dell’Alberti e del Filarete. Più di ogni altra questa piazza sembra recuperare l’idea primigenia di spazio racchiuso, l’antico modello della corte del palazzo di Cnosso. L’analogia tra piazza e corte, tra città e palazzi, è resa qui estrema.

"Nella casa l’atrio, la sala e gli ambienti consimili devono esser fatti allo stesso modo, che in una città il foro e i grandi viali: non già, cioé, in posizione marginale, recondita o angusta, ma in luogo ben visibile e tale da esser raggiunto nel modo più diretto dalle altri parti dell’edificio". Così Leon Battista Alberti; così Camillo Sitte ne L’arte di edificare le città: "Il Foro sta alla città come l’atrio sta alla dimora della famiglia, è la stanza più importante e riccamente ammobiliata".

Che cosa nell’ultimo secolo ha portato alla riduzione del potere rappresentativo della piazza, sino a renderla, nella maggior parte dei casi, elemento della sola toponomastica? Quali mali affliggono le piazze di nuova edificazione e come intervenire invece nella città consolidata?

Aver guardato alla storia, sia pure in forma breve, ci suggerisce una probabile interpretazione, e quindi una eventuale traduzione in termini progettuali.

Per troppo tempo il degrado dei vuoti urbani ha coinciso con il frenetico sviluppo della città moderna. Il più recente passato, in nome dell’equivoca dizione di arredo urbano, ha visto la pervasiva e incontrollata collocazione nelle strade e nelle piazze di oggetti difficilmente ascrivibili a qualsiasi categoria.

Contemporaneamente il dibattito architettonico si è sviluppato intorno ai numerosissimi concorsi, internazionali e non, che hanno avuto come tema la riqualificazione o la definizione di vuoti urbani. Guardando a quei progetti ci siamo trovati spesso di fronte alla celebrazione, quanto mai retorica, di una idea dell’architetto, spesso assai distante dall’idea di piazza. Si è abusato del simbolo, del mito, della letteratura per generare oggetti lontani da qualsiasi realtà. Piani inclinati, tagli nel terreno, labirinti di alberi si pongono come ostacoli al cammino, alle naturali visioni prospettiche, inducono sforzi mentali per riconoscersi. Molti progetti parlano solo a se stessi in un patetico soliloquio; organismi estranei a qualsiasi desiderio gravitano in uno spazio di ignota geometria.

Grandi gesti di difficile interpretazione, immagini consumate nel tentativo di perseguire l’originalità ad ogni costo, generano invece oggetti di facile riproduzione.

Impossibili vedute dall’alto si affiancano ad improbabili scorci prospettici aperti su città deserte. Un solo viaggiatore, colui che in quel momento vede l’immagine rappresentata sul foglio di carta, percorre centinaia di progetti. Il senso di solitudine invade chi guarda ciò che è guardato. Una solitudine che difficilmente è paragonabile, come invece spesso si tende a fare, al senso di contemplazione proprio delle piazze dechirichiane. Una solitudine che è altresì smarrimento, perdita di memoria, inquietudine, isolamento. L’impressione che viene dal vedere questi deboli ritratti urbani, eseguiti con fredda sapienza grafica, è che niente ci sorprenderà, nulla dovrà più accadere, nessuna figura entrerà in quella scena. A visioni prospettiche deserte si oppongono le piazze della realtà, dove é, prima di ogni altra cosa, il moto dinamico e vitale delle persone a definire e ordinare lo spazio e quindi gli stessi elementi architettonici. è la profondità abitata di cui parla lo stesso De Chirico che le rappresentazioni delle piazze, nella maggior parte dei progetti, non riesce a rivelare. "Così la superficie piatta d’un oceano perfettamente calmo – scrive De Chirico – ci inquieta non tanto per l’idea della distanza chilometrica che sta tra noi e il suo fondo quanto per tutto lo sconosciuto che si cela in quel fondo. Se così non fosse l’idea dello spazio ci darebbe solo la sensazione della vertigine, come quando ci troviamo a grandi altezze".

 
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